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Suo Splendore Ju-Han Bo Rehel

   In pochi sanno che esiste una comunità spirituale tibetana di origine italiana. Singolare la sua storia: nel 1942, in piena Seconda Guerra Mondiale, una compagnia di soldati italiani fu fatta prigioniera dopo la sconfitta ad El Alamein e si decise si trasferirla negli States in attesa della fine delle ostilità. I poveretti si imbarcarono su un aereo cargo in partenza da Bengasi, ma a seguito di una serie sfortunata e incredibile di equivoci e problemi, invece di atterrare a Nuova York, arrivarono in Nepal, a Katmandu!!! L’aereo, essendo un cargo, dovette ripartire subito per completare lo scarico delle merci in Corea, ma i piloti promisero che sarebbero tornati a riprenderli… Ma vattelappesca che fine fecero! Non se ne ebbe più notizia.

   Tuttavia, lo sappiamo bene come sono fatti gli italiani: dopo 5 mesi si erano perfettamente adattati al nuovo territorio: si sistemarono in una bella radura su in collina; costruirono case di mattoni d’argilla, ararono il terreno, piantarono i semi che gli avevano regalato i gentilissimi abitanti del luogo e i napoletani si fecero portare due o tre chitarre dalla Cina da certi contrabbandieri con cui avevano intrapreso attività commerciali. Insomma, alla fin fine, non se la passavano male.

   Ma un giorno arrivò nella loro piccola comunità ‘nu monaco eremita che era vissuto da che aveva 12 anni – e fino ad allora – DA SOLO – sulla cima dell’Everest e che ne era disceso perché aveva ricevuto una improvvisa illuminazione: aveva sognato che doveva recarsi in quel dato posto per fondare una nuova comunità di Santi Monaci. Suo Splendore Ju-Han Bo Rehel era veramente un sant’uomo: spiritualmente eletto, moralmente integerrimo e pieno di fantasia e di buona volontà. Arrivò tra gli italiani e cominciò a predicare. Ma nessuno gli prestava ascolto. Il fatto è che Suo Splendore mangiava solo cereali e radici UNA VOLTA AL GIORNO! Pregava ogni 2 ore; suonava solo ‘na campanella; raccomandava la castità e la purezza d’animo. Niente sigarette, niente vino e niente chitarra! A castità? Quelli, specie i più giovani, avevano già trovato compagnia tra le nepalesi più graziose e come si faceva a ridiventare casti bell’e bbuono? Insomma la tarantella tra Ju-Han Bo Rehel e l’indisciplinata comunità a cui era stato destinato andò avanti per mesi. Lui a insistere e quelli a fare a modo loro.

   Ma Suo Splendore aveva un soprannome che gli era stato imposto da adolescente dal suo maestro: “Kah Pah Thosth” che nell’antico dialetto del posto significava: “Ma tu guarda che cazze ‘e pacienza tene chiste!”. E, infatti, in quei frangenti se ne capì la ragione. Insomma, il sant’uomo tanto fece che alla fine si trovò il compromesso: i monaci si potevano tenere le nepalesi carine, ma si doveva celebrare un matrimonio tibetano e le coppie non si dovevano far vedere in giro a scambiarsi effusioni. Le radici si mangiavano la mattina presto prima di colazione, si facevano 2 pasti al giorno (a purziona ‘e 3!) e ‘a campanella ‘a sunava solo Suo Splendore nella sua cella del convento quando scurava notte e stava da solo. I monaci, dal canto loro, potevano bere massimo 2 bicchieri di vino (rosso) al giorno (ma non si seppe mai quanto potevano essere grandi i bicchieri), potevano fumare (ma solo all’aperto) e potevano suonare e cantare solo canzoni napoletane che a Suo Splendore il Rap e il Rock gli facevano sturbare la nervatura!

   Ma, ad onor del vero, va anche detto che i munacielli volevano un gran bene a Ju-Han perchè ogni anno organizzava dei bei soggiorni in giro per il Nepal, nei migliori resort e nei migliori ristoranti. Lui continuava a mangiare ‘e rrareche d”e sciuscelle e qualche tocchetto ‘e murtadella ‘e puorco cinese, mentre i monaci si sbafano con arrosti di bue dell’Everest, patane fritte di Katmandu, anguille arrustute del fiume Gandaki e dolci assortiti confezionati dalle loro consorti nepalesi. E poi si divertivano con un gioco che aveva inventato Suo Splendore in persona: si trattava di far passare, a furia di calci, una palla di pezza in mezzo a due pali di legno infissi nel terreno. Si fecero diverse squadre – a seconda delle regioni di provenienza dei munacielli italiani – e si giocò, ogni anno verso fine giugno, un Campionato Napalese. Molti monaci, grazie agli ammaestramenti di Ju-Han Boh Rehel, divennero esperti nella medicina e somministravano cure agli abitanti di tutto il Tibet, specie creme per i calli, lenitivi per le emorroidi e unguento per i chiattilli. Fu anche fatta una Nazionale dei Medici Italo/Nepalesi che sfidava la Nazionale degli Allevatori di batraci, dei Coltivatori di pastenache, dei Fabbricanti di Cinti erniarii e di protesi maschili.

   I Monaci amavano la pace e la convivenza civile, ma quando giocavano ‘a Palla ‘e Pezza Tibetana, se trasfurmavano! Pacchere! Fecuzzuni, ponie, schiaffune, scurziette, ventagliette, votavracce, buffe e pizzeche tuorte! Suo Splendore, poveretto, si disperava! Chiamava a gran voce Ju-Seph Car-Oh-Tenuth che era stato nominato dirigente della Associazione Centrale Sorveglianti Internazionali e che coordinava tutti gli arbitri, ma certe volte non ci poteva nemmeno lui e allora lui e Suo Splendore salivano sul tetto del monastero e insieme abbuttavano ‘e petrate i litiganti fin quando – cu’ ‘e ccape spaccate – non si decidevano a fare pace! E allora Ju-Han Boh Rehel suonava la campanella e tutti se ne andavano a dormire.

Giovanni Granato – Webmaster – Ufficio Stampa Nazionale Medici Calcio

 

 

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